Casa a Lecce, ma ha vissuto e viaggiato nel mondo (Brasile, Spagna, Germania, Francia…), era in Etiopia quando è scoppiata la pandemia.
Laurea in Scienze della comunicazione, Master in Fotografia e creatività alla scuola EFTI di Madrid. Ha partecipato a mostre singole e di gruppo in diversi paesi, tra questi: Italia, Francia, Spagna, Russia, Giappone, Brasile, Grecia, Finlandia, Svizzera.
“Credo nella continuità, ho imparato a guardare lontano e non ai miei piedi. Nel tempo mi sono resa conto che ibrido molto il linguaggio, non mi ritengo una fotografa pura, proprio perché mentalmente parto dall’incompiuto e dall’irrisolto che mi ha sempre affascinata. Sin da piccola ne sono stata attratta, forse perché vivevo nel sud Italia dove c’è sempre un grado di improvvisazione, di riarrangiamento e l’incompiuto diventa fantasia. La prima serie che ho fatto si chiama “Indomestico”, ed erano giochi visivi di nuove possibilità di costruzione tra oggetti inanimati. Ho fatto ricerca per molto tempo e poi sono approdata sul territorio della fotografia come indagine, i miei temi sono spesso gli stereotipi. La fotografia ha un vizio, perchè induce il pensiero, ad esempio quella giornalistica induce a pensare che quella foto è la verità, quella pubblicitaria induce ad un comportamento compulsivo di acquisto. Io rifletto spesso nei miei lavori sul mezzo stesso della fotografia. Fata Morgana, diventato libro e premiato in Spagna, è una riflessione sugli stereotipi del fotogiornalismo della crisi migratoria. Adesso sto iniziando un progetto che partendo da quanto prodotto negli anni 50 dal neorealismo, analizza gli stereotipi visivi e concettuali che sono stati generati sull’Italia e il relativo colonialismo visivo. La foto è un tramite, uno strumento che mi permette di ragionare, di sviscerare quello che si può fare con la fotografia, come si può giocare con queste cose”.